Potrebbero le origini della scrittura essere molto più antiche di quanto in
genere si creda? Potrebbero cioè affondare le radici nell’ultima fase dell’età
della pietra, ossia nel neolitico? E potrebbero, infine, essere molto
più vicine geograficamente, precisamente nell’Europa sud-orientale?
Sulle rive del Danubio, 7.500 anni fa fiorisce una civiltà che non
sfigura rispetto a quelle tradizionalmente riconosciute come le prime
complesse architetture sociali e culturali dell’umanità: Mesopotamia,
Egitto, valle dell’Indo e Cina. La Civiltà del Danubio è fra le più importanti
dell’antichità e, per alcuni aspetti, sembra precedere le altre.
Alcuni studiosi stanno avanzando l’ipotesi che addirittura sviluppi una
propria scrittura ben 7.000 anni orsono, oltre un millennio e mezzo prima
dei geroglifici egizi e del cuneiforme sumero: la scrittura del Danubio
(Danube Script). La stupefacente esistenza di un’antica scrittura europea
e la sua comparsa in anticipo rispetto all’Egitto e alla Mesopotamia
non è affermata da amateur visionari o da ricercatori affamati di
scoop. È sostenuta da pacati cattedratici, responsabili di dipartimenti di
archeologia in università prestigiose, stimati curatori di musei, linguisti
insigniti di premi internazionali, direttori di autorevoli riviste specializzate.
Se l’orizzonte storico che sto delineando viene ampiamente discusso
nei congressi internazionali per addetti ai lavori e inizia a essere
reso noto da divulgatori del calibro di Richard Rudgle (autore tra l’altro
della serie storica su Discovery Channel), non trova però riscontri nei libri
scolastici, nei manuali universitari sulla preistoria e neppure nella
pubblicistica divulgativa. Prodotto sorprendente dell’età della pietra, il
Danube Script mina le convinzioni consolidate circa l’avventura umana
della scrittura e i percorsi della storia eurasiatica, per arrivare addirittura
a ridefinire l’idea stessa di “civiltà”. Lo scenario di un’area europeacon un passato remoto culturalmente molto più sviluppato di quanto
siamo in genere a conoscenza possiede infatti un’enorme potenza evocativa.
Fin da bambini, diversi metri di libri sull’avventura umana della
scrittura ci hanno infatti convinto che la nostra civiltà – scandita dal
passaggio dalla preistoria alla storia proprio grazie alla conquista dell’abilità
di leggere e scrivere – sia nata non prima di 5.000 anni fa, in
Asia occidentale o in Africa nord-orientale. Dovremmo infatti ringraziare
la sagacia con cui sumeri ed egizi hanno saputo rispondere alle
esigenze economiche e amministrative delle loro città Stato e dinastie
regali. L’ars scribendi – al pari di altri elementi civilizzanti quali l’urbanesimo,
l’allevamento e l’agricoltura – si sarebbe successivamente irraggiata
verso l’Occidente e l’Estremo Oriente. Questa invenzione piuttosto
recente, si sostiene, non avrebbe nulla a che vedere con popolazioni
“primitive” che, in tempi molto più lontani, sarebbero state indaffarate
a sopravvivere alla meno peggio in Europa. Popolazioni che di
pietra non avrebbero solo gli utensili ma anche la testa, vestirebbero
pelli sformate, amerebbero scarabocchiare sulle pareti delle caverne e
sarebbero intente in riti superstiziosi e magari cannibali.
All’interno di una più generale rivalutazione delle culture precedenti
l’età del bronzo, il punto di vista emergente considera invece la scrittura
del Danubio uno dei pilastri di una civilizzazione neolitica ed eneolitica
(il periodo in cui si afferma il rame ma continua anche l’uso della
pietra) di alto profilo e che contempla un’agricoltura dotata di tecnologie
avanzate quali l’aratro e l’irrigazione, commerci con rotte di migliaia di
chilometri, lavorazione del rame e dell’oro, ceramica di elevata qualità,
“industria” tessile, tecnologia navale, città con decine di migliaia di abitanti,
conoscenze geometriche e numerologiche, cognizioni mediche e
astronomiche, un’articolata stratificazione professionale, solide istituzioni
regionali nella forma di reti e leghe fra i diversi centri abitati. Fin
dall’ottavo millennio, lungo il corso medio e finale del Danubio sono
dunque presenti tutti i fattori – tranne lo Stato e il potere regio – che gli
storici sono usi additare per le grandi civiltà del mondo antico.
Sarà necessario mettersi d’impegno per riscrivere il racconto di come
siamo divenuti homo scribens? Così come l’intera storia europea?
La posta in gioco è alta, troppi gli assunti consolidati che vanno in
pezzi. Meglio procedere con i piedi di piombo. L’esistenza di questa
scrittura si basa su una documentazione davvero attendibile? Se è vero
che il quadrante sud-orientale dell’Europa ha sviluppato una propria scrittura in un’epoca tanto remota, perché questo avvenimento tanto
straordinario continua a essere sottovalutato quando addirittura non
ignorato da buona parte degli archeologi e degli storici? Viceversa, è
possibile che stimati studiosi siano stati tanto ingenui da mettere a repentaglio
con leggerezza la loro carriera parlando di homo scribens vetero-
europeo? In una parola: è con la forza di prove documentarie o solo
con la suggestione dell’immaginazione che la scrittura della pianura
del Danubio riempie una reale debolezza da parte dell’archeologia sul
mistero dell’origine della civiltà? Per l’esistenza del Danube Script esiste
già la “prova finale”? La stiamo ancora attendendo? Non ci sarà mai?
In questi intriganti quesiti mi sono rigirato per tre anni. Le risposte
potrebbero rivoluzionare il corso della preistoria e con esso le fondamenta
e l’identità culturale europea: solo ora stiamo infatti intuendo che
la Civiltà del Danubio ha lasciato un’impronta duratura nella cultura del
Vecchio Continente.
Spazientito di raggranellare polvere nelle diverse biblioteche, scettico
ma affascinato dalla possibilità che siano esistite forme di scrittura
nel neolitico ed eneolitico balcanico-danubiano, ho messo in moto la
mia esperienza di giornalista svolgendo un Grand Tour nell’Europa
orientale, fra il 2001 e il 2003, per verificare di persona la documentazione
esistente. Macinando migliaia di chilometri, ho visitato siti archeologici,
interrogato professori universitari e singoli ricercatori, setacciato
le vetrine (a volte anche i sotterranei e i sottoscala) dei musei,
verificato sotto la lente gli oggetti incisi con segni che davano l’idea di
iscrizioni. Un Grand Tour tra indizi labili, tracce lasciate da archeologi
vissuti magari un secolo e mezzo fa, reperti dispersi su mezzo continente
quando addirittura non scomparsi nel mercato nero, referti spesso e
volentieri lacunosi. Un’esplorazione resa possibile dall’essere riuscito a
inserirmi come giornalista nelle nuove strade internazionali di collaborazione
fra studiosi che, dopo il gigantesco naufragio della produzione
culturale avvenuto nel blocco sovietico durante la guerra fredda, si sono
schiuse con il processo di allargamento a oriente dell’Unione Europea.
Non ho giocato al rabdomante. Semplicemente, la spinta degli interrogativi
man mano accumulati mi ha portato a reperire le informazioni
direttamente alla fonte. E infine mi sono trovato immerso in qualcosa
che articoli e volumi non possono dare: interrogando uno studioso
o investigando su un oggetto “portalettere”, spesso mi sono imbattuto in
informazioni inedite e inaspettate.
Ciò nondimeno, è stata una caccia che mi ha forzato a divenire paziente.
I reperti con segni che possono ricordare una scrittura sono per
lo più sconosciuti in Occidente. Quasi impossibile sapere quali sono,
come sono fatti e dove sono conservati. Nei paesi danubiani sono dispersi
in centinaia di collezioni e giacciono sovente nei magazzini dei
musei, nei depositi delle università quando non addirittura nei cassetti
degli archeologi che li hanno rinvenuti. Più di una volta ho questionato
con il direttore di una collezione, perché gli chiedevo di prendere in visione
un oggetto che sosteneva di non possedere. E a volte purtroppo ha
avuto ragione lui: diversi “libri d’argilla” sono scomparsi negli anni
passati e intere collezioni sono addirittura evaporate nel vortice dell’ultima
guerra balcanica. La mia ricerca sul Danube Script ha dovuto quindi
fronteggiare enormi perdite di documentazione. Una scomparsa tanto
vasta e radicale che in questi ultimi anni abbiamo rischiato di dimenticare
perfino l’esistenza di questa antica scrittura europea, mentre era
una nozione scontata per gli archeologi dei primi del Novecento.
Questo libro è quindi un rapporto di viaggio. Forse di pellegri-viaggio.
Un resoconto che ha l’intento di mettere alla portata del grande
pubblico i ritrovamenti degli ultimi scavi, esporre i risultati dei più recenti
studi archeologici e semiologici e presentare gli studiosi impegnati
nella ricerca sul Danube Script e i loro metodi d’investigazione. Quelle
che ho avuto con questi autori non sono state chiacchiere fugaci e superficiali.
In media, ho realizzato interviste di mezza giornata, a volte
addirittura per tre giorni di fila, fino alla rivolta del mio intervistato. Me
ne scuso profondamente, ma non mi pento. Diversi miei interlocutori
sono famosi. Altri lo diventeranno. Tanto vale quindi che il lettore sfrutti
l’opportunità di farne la conoscenza “in anteprima”.
I colloqui con questi studiosi mi hanno spalancato finestre su quella
che viene definita la “Civiltà del Danubio” perché si è sviluppata lungo
il sistema di corsi d’acqua, laghi, delta alluvionali e paludi che fanno
perno su questo grande fiume e sui suoi affluenti. Il Danubio è il fiume
che ha favorito la nascita di questa civiltà antica e che simboleggia, con
il corso sinuoso e la corrente lenta e fremente, il divino femminile allora
venerato. Orizzonte liquido, utero di antenati mitici, acque feconde,
limo umido e fertile, corrente protettiva, arteria commerciale, via d’immigrazione
ma anche di fuga: a partire dalla metà dell’ottavo millennio,
e per ben venti secoli, lungo questo immenso fiume tutto europeo si sviluppano
villaggi rurali che ospitano contadini, religiosi, guerrieri, mer-canti, artigiani uniti da una stessa matrice culturale. Essi condividono,
oltre al sistema di scrittura, le credenze religiose, i riti funerari, i simbolismi
culturali e probabilmente la stessa lingua, con più o meno accentuate
differenze dialettali. Simili appaiono anche i modelli istituzionali e
le strutture sociali: una stratificazione sociale in embrione e che solo in
parte si traduce nella gerarchia politica che siamo abituati a riconoscere
nel periodo storico, villaggi connessi fra loro in confederazioni di mutuo
sostegno e reciproche convenienze, una religione che detta le regole della
comunità. I villaggi sono costruiti con le stesse piante e regole. Prosperano
per strati successivi, edificando le case sulle fondamenta di
quelle precedenti. Comuni sono la forma delle abitazioni, lo stile dei
manufatti e la produzione artistica. Condivisa è una rete commerciale,
che si spinge fino all’Europa settentrionale e alla Mesopotamia, attraverso
cui vengono scambiati anche beni di pregio e status symbol.
Mentre egiziani e mesopotamici investono le loro migliori energie
per erigere monumenti maestosi ai loro sovrani e templi magniloquenti
per i loro dei, la Civiltà del Danubio non lascia tracce grandiose. I suoi
abitanti, liberi da un’eccessiva reverenza verso le gerarchie terrestri e divine,
si dedicano alla produzione artigianale di alto livello, rubano tra i
primi il segreto del metallo alla terra, venerano l’amplesso divino e idoli
femminili in case-santuario, concentrano le energie sulla crescita del
raccolto e sull’allevamento del bestiame, vivono entro l’orizzonte di un
villaggio rurale e della famiglia, dei discendenti da un comune capostipite
mitico e degli altri nuclei domestici con cui condividono il cortile.
La Civiltà del Danubio è la più misteriosa fra tutte quelle che sono
prosperate lungo il corso dei grandi fiumi, perché fiorisce nel passato
remoto dell’età della pietra e perché una convergenza di ragioni sfavorevoli
l’ha resa per lungo tempo invisibile ai nostri occhi. La sua scarsa
propensione per la maestosità l’ha resa invisibile alla concezione storica
predominante, abituata ad assegnare a un consorzio umano la patente
di “civiltà” più sulla base del tasso gerarchico delle istituzioni che del
livello culturale. Fino a non molti anni fa, la divisione dell’Europa in
blocchi avversari ha significato l’erezione della cortina del silenzio sulle
grandi eredità culturali dell’inquieto Est. Così, da cinque millenni, le
rovine in gran parte ancora sotterrate dei villaggi del Danubio continuano
a custodire i segreti di una civiltà che fiorisce in una vasta area e pare
scomparire repentinamente. E che forse ha anche sviluppato la prima
scrittura europea conosciuta.
Questo libro è stato possibile grazie alla passione e alla pazienza di
molte persone e organizzazioni che ringrazio in apertura di bibliografia.
Non posso però esimermi fin da subito da tre sentiti ringraziamenti.
Il primo va a una stimata pittrice torinese, Daniela Bulgarelli, che
ha accettato di studiare e mettere in evidenza i segni che appaiono sugli
oggetti portalettere. Un accorgimento da micologo: si impara a riconoscere
con precisione i funghi non tanto sui manuali corredati da foto, ma
soprattutto su quelli supportati da disegni che ne sottolineano i tratti distintivi.
Di Daniela Bulgarelli sono le illustrazioni a colori a corredo del
presente volume.
Il secondo va al collettivo di grafici di Planetcom che sta appassionatamente
lavorando al sito web del Prehistory Knowledge Project
(www.prehistory.it).
Il terzo ringraziamento va a zio Demo che, tanti anni dopo la sua
morte, mi ha spinto alla caccia degli indizi su questa scrittura proto-europea
facendomi arrivare gli appunti che aveva steso sul campo e un
cuoricino d’argilla che porta un’iscrizione. Attendo presto sue nuove...
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